Facce da Milan by Comunque Milan;

Facce da Milan by Comunque Milan;

autore:Comunque Milan; [ComunqueMilan]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 978-88-89035-98-6
editore: edigita
pubblicato: 2020-05-03T22:00:00+00:00


FABIO CAPELLO

ovvero

il Pragmatico

«Sono stato sei anni con i gesuiti della Juve, e so come vanno certe cose.

Se davvero dicessi ciò che penso, scoppierebbe il finimondo».

(F. Capello, dieci anni prima di allenare i gesuiti)

Yesman. Uomo di paglia. Re Travicello. Prestanome, zerbino, lacché. «La più grande offesa per la categoria» (Franco Scoglio, intervista alla Gazzetta dello Sport, ottobre 1991). Nei casi più gentili, «Un uomo Fininvest in panchina», come titolò il Corriere della Sera: nella primavera del 1991 Fabio Capello rientrò nel consesso calcistico italiano e fu accolto da un coro universale di pernacchie, cachinni e campanacci, stile pubblico della Corrida. Col mento glabro e volitivo, che in certi contesti poteva anche apparire caricaturale, in un certo senso Capello incoraggiava le prese in giro, sventolando ogni due per tre la sua cieca aderenza al Gruppo e il suo know-how da direttore generale di Polisportiva Milan, da dirigente di hockey su ghiaccio, da diplomatico, uomo di viaggi e cene di lavoro, ma allenamenti e spogliatoi zero. Se non ovviamente da giocatore, più alla Juve che al Milan, dove non fu mai amato dai tifosi che in tre anni di gioco compunto e postura contegnosa lo battezzarono “culobasso”. Eppure, la società per averlo aveva dato ai gobbi – che volevano disfarsene causa dissapori di spogliatoio – il glorioso Romeo Benetti più 200 milioni. All’epoca Capello era ancora un Nazionale, anche se agli sgoccioli di una carriera che era culminata nel gobbissimo, proverbiale “Gol di Capello” in Inghilterra-Italia 1973, ossia come espugnare Wembley con uno sgraziatissimo tocco di malleolo da un metro, all’87’. E questo, vent’anni prima di pronunciare la storica frase «Se volete vedere uno spettacolo, andate al circo».

Capello successore di Sacchi fu una geniale intuizione di Silvio Berlusconi, senza dubbio. Aveva bisogno di far saltare il banco dopo i fattacci di Marsiglia e la presa d’atto di una squadra disintegrata psicologicamente dal Gran Matto di Fusignano. Capello trovò un ambiente gelido da post-Dresda: «È fermo da quattro anni», chiosò il solitamente mite Donadoni, «e nel calcio moderno è come se non allenasse da vent’anni». Le cose non sarebbero migliorate con Savicevic, con Gullit, con Papin, con Baggio, persino con Sandrino Melli che doveva diventare il nuovo centravanti italiano e invece durò meno di papa Luciani. Ma era dunque questo il segreto di Capello: puntare tutto sulla professionalità dei giocatori, meglio se campioni; lasciar fare, lasciar fare, lasciar fare e poi al momento opportuno stroncare senza pietà, serrare una volta di più la mascella (tranne che per l’amato Van Basten, schierato anche da morto in una finale di Champions).

Nella conferenza stampa di presentazione aveva preannunciato che «Aldo Serena sarà la nostra prima punta». Serena contò due presenze in tutto il campionato. Fu il primo di tanti proclami autocontraddetti con occhio imperturbabile, da pragmatico gestore ideale di quelle rose stracolme di stelle e Palloni d’Oro, con sette stranieri tutti fortissimi quando in campo potevano starcene al massimo tre, gli anni di Brian Laudrup e Raducioiu ridotti a tappezzeria e Savicevic sostituito tredici volte su venti nel campionato 1993-94, eppure uomo del destino ad Atene contro il Barcellona.



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